03/05/2018

Bonotto: "Il mondo sta cambiando il linguaggio di come si consuma e, di conseguenza, del perché si produce"

"Le nostre fabbriche si terranno in piedi solo se avremo un territorio forte: il bene del territorio diventa il bene della fabbrica".

Lo conoscono tutti come l’imprenditore della “Fabbrica lenta”. Un nuovo, rivoluzionario paradigma produttivo e creativo che ha trasformato un’azienda tessile tradizionale in un vero e proprio unicum nel panorama dell’industria tessile non solo italiano, non solo europeo, ma mondiale. Lui è Giovanni Bonotto, direttore creativo della Bonotto spa, l’azienda di Molvena che dal 2016 è parte del Gruppo Ermenegildo Zegna. Giovanni guida l’azienda con il fratello Lorenzo, che ha il ruolo di CEO, ma in fabbrica ci sono ancora anche i genitori, il padre Luigi e la madre Nicla Donazzan. In occasione del recente Festival Città Impresa di Vicenza, Bonotto è intervenuto al convegno intitolato "Fabbricare valori: l'impresa e il cambio di paradigma" che si è svolto a Palazzo Bonin Longare.

Bonotto, qual è stato, e qual è tuttora, il cambio di paradigma che avete introdotto in azienda?
Una volta il bene della fabbrica faceva il bene del territorio perché si creavano posti di lavoro, si diventava capoturno e ci si costruiva la villetta a schiera... Oggi non è più soltanto questo. Le nostre fabbriche si terranno in piedi solo se avremo un territorio forte: il bene del territorio diventa il bene della fabbrica. Se non abbiamo manager e dipendenti felici di vivere qua, la fabbrica non ha un futuro.Personalmente, sto cercando di convincere il mio consiglio di amministrazione, e me stesso in primis, che il posto più importante della mia fabbrica è l'ufficio delle risorse umane, ancor prima dei clienti.

L'azienda a partire dagli anni Settanta è stata méta di un gran numero di artisti internazionali. Avete fatto a vostro modo una rivoluzione...
Quando ero bambino e avevo quattro o cinque anni persone per me allora molto strane iniziarono ad arrivare in casa e in fabbrica. Artisti di ogni specie, come Yoko Ono, Joseph Beuys, John Cage, Ben Vautier e molti altri. Alla fine, di questi personaggi in fabbrica ne sono passati trecento. Erano felici di trovare un imprenditore come mio padre Luigi che li coccolasse, gli comprasse un'opera e li accogliesse a Molvena. La cosa davvero particolare era che lavoravano tutti dentro la fabbrica, non in qualche atelier staccato; nello stesso luogo dove si producevano i tessuti industriali questi artisti creavano e realizzavano le loro performance. Oggi abbiamo 17 mila e più opere che sono state costruite letteralmente dentro l'azienda.

La seconda rivoluzione è stata quella della Fabbrica Lenta, e siamo in tempi più recenti, una decina di anni fa.
Nel 2007 ci trovammo di fronte a un problema, quello di aver perso la competitività del costo orario in fabbrica. Produrre da noi costava più degli altri. Capimmo che non dovevamo più produrre soltanto materiali, ma identità, piccole opere, piccoli pezzi di DNA. Il consumatore però era diventato un consum-autore, aveva cambiato modo di approcciarsi, quindi anche noi come imprenditori dovevamo cambiare il linguaggio della fabbrica, perché il mondo stava cambiando il linguaggio di come si consuma e, di conseguenza, del perché si produce.

Si dice spesso che in greco la parola crisi significa trasformazione, cambiamento. Voi l'avete presa alla lettera e avete trasformato questi anni di crisi in una nuova opportunità.
La crisi è un linguaggio che cambia. Noi ce l'abbiamo fatta perché siamo stati impollinati dagli artisti - fastidiosi, eccentrici, tedeschi, americani, giapponesi che nessuno capiva perché allora come ora in fabbrica si parla il veneto - che ci hanno fatto inforcare gli occhiali della fantasia, quelli che ci permettono di interpretare e parlare questo nuovo linguaggio. Le loro opere, come dicevo, sono qui, a contatto con la gente che lavora.

Da dove è arrivata la scintilla che ha fatto accendere la lampadina della Fabbrica Lenta?
In quel periodo quando si verificava il fallimento di qualche azienda del nostro territorio, io anziché interessarmi all'acquisto di qualche loro macchinario super-tech, andavo a guardare il retro delle fabbriche. E lì trovavo dei tesori. Il primo è stato un container con dieci telai meccanici del 1956, altri sono arrivati in seguito. Queste macchine ci permettono di dipingere l'indipingibile, perché sono tutte regolabili con le mani: in fabbrica non abbiamo più l'operaio che accende e spegne la macchina, ma il maestro artigiano. Su ogni telaio lavora una sola persona. Può sembrare un costo industriale folle, ma i nostri sono telai che vanno tutti regolati con le chiavette, a mano, è così che riescono a usare materiali che nello standard industriale sono difficili, complicati, non hanno alte performance. La tintoria è una cucina, e con l'alchimia delle cucine escono materie che fanno innamorare le persone.

Ma il prezzo in questo modo diventa inevitabilmente più elevato. Non è un problema?
Il prezzo diventa la terza, la quarta domanda che ci fa il nostro cliente, mai la prima. Perché quando la macchina è governabile con le mani e ci convinciamo che siamo i figli delle botteghe rinascimentali, il cliente non chiede più "quanto costa?", perché è rapito dal prodotto. Per arrivare a questo conta molto il rapporto con il territorio, perché la mia fabbrica non è più il mio capannone, ma è il mio territorio con tutte le storie incredibili che contiene.