20/03/2019

L’industria italiana e la produttività. Cosa significa essere competitivi?

La nota del Centro Studi Confindustria.

Livio Romano e Fabrizio Traù*

La manifattura italiana occupa ancora oggi la settima posizione al mondo per valore aggiunto, la quarta per diversificazione produttiva, la seconda per competitività dell’export e mostra un tasso d’investimento che è superiore a quello dei principali competitor europei, Germania inclusa.

Eppure, è largamente diffusa, non solo in Italia, l’idea che essa sia da tempo affetta da un forte deficit di competitività, che negli anni l’ha portata ad allontanarsi dalle traiettorie di sviluppo seguite dagli altri principali partner occidentali. Questa visione “declinista” si fonda su un’analisi parziale delle statistiche della crescita, circoscritta alle stime del valore aggiunto in volume (ossia a prezzi costanti).

L’utilizzo delle stime a prezzi costanti per fare confronti internazionali richiede però cautela, innanzitutto perché i metodi per costruirle non sono gli stessi tra i diversi paesi, neanche restringendo l’analisi alla sola UE. In particolare, risulta ancora oggi lasciata alla discrezionalità dei vari istituti nazionali di statistica la scelta di quali e quante metodologie impiegare per tenere conto del miglioramento qualitativo dei beni manufatti e dell’aumento dei prezzi che, tipicamente, ne segue. Aumento che però non riflette l’inflazione, ma è il risultato di una strategia attiva di riposizionamento su fasce di mercato più elevate. Per misurare i miglioramenti qualitativi dell’output, in Italia si utilizza una sola metodologia, in Francia e Spagna se ne impiegano due, nel Regno Unito tre, in Germania cinque, nei Paesi Bassi sei.

Su questi presupposti è pressoché impossibile stabilire se e quanto il divario di crescita a prezzi costanti della manifattura italiana, che sull’upgrading qualitativo ha fondato la sua strategia di risposta alla concorrenza di costo del mondo emergente, sia riconducibile ad un fatto statistico piuttosto che ad un fatto economico. Quando la crescita venga misurata in valore (a prezzi correnti), invece che in volume, la performance dell’industria italiana appare infatti tutt’altro che anomala nel confronto internazionale. Fino allo scoppio della crisi dei debiti sovrani, il suo valore aggiunto è cresciuto in linea con quello dell’Area Euro e della Germania. Inoltre, anche nei lunghi anni della crisi, la sua produttività del lavoro ha mantenuto un profilo di crescita analogo a quello francese.

Le stime della crescita a prezzi costanti pongono, oltre a un problema metodologico, anche una questione di natura interpretativa: il loro significato economico non è univoco come potrebbe sembrare. Questo perché la metodologia della doppia deflazione, che è alla base della costruzione delle serie del valore aggiunto a prezzi costanti, comporta che un aumento dell’incidenza dei costi intermedi sul valore della produzione si rifletta in una maggiore crescita. Così, una dinamica positiva del valore aggiunto a prezzi costanti può nascondere, come avviene nel caso francese, una forte contrazione delle risorse disponibili per gli investimenti e per remunerare i fattori produttivi. Di contro, una dinamica piatta del valore aggiunto a prezzi costanti può sottendere, come nel caso italiano, una forte crescita di quelle stesse risorse.

Per capire quali siano effettivamente i problemi del sistema produttivo italiano è necessaria una chiave di lettura coerente con tutte le informazioni a disposizione. È altrettanto urgente che in sede UE si decida finalmente di standardizzare le metodologie di calcolo delle statistiche della crescita. Ne va della corretta comparazione degli andamenti del PIL tra paesi europei.

Scarica il documento completo del Centro Studi Confindustria.

Per commenti scrivere a: l.romano@confindustria.it, f.traù@confindustria.it.