17/06/2015

Federica Molteni, una vita per l’Africa

Un’etnologa vicentina viva da 11 anni in Africa per portare avanti progetti di sviluppo nei luoghi più dimenticati del mondo.

Gli studi universitari a Parigi e un viaggio in Tanzania l'hanno portata a fare una scelta di vita fuori dal comune nel mondo del sociale a centinaia di chilometri di distanza da casa sua.
Federica Molteni, 42 anni, nativa di Santorso, ex studentessa del liceo scientifico Tron di Schio, ha varcato i confini del Camerun, del Ciad e della Tanzania per aiutare gli altri. Che fossero popolazioni disagiate, malati di hiv o aids o disabili del continente africano, l'obiettivo è sempre stato il medesimo in questi ultimi undici anni della sua vita: migliorare le loro condizioni e confrontarsi con altre realtà.
A portarla così lontana un sogno nel cassetto, la curiosità di conoscere altre popolazioni e di mettersi a loro disposizione.

Come ha avuto inizio la sua avventura nel mondo del sociale? Cosa l'ha spinta a intraprendere questa carriera?
La passione per l’Africa mi è venuta sia per gli studi fatti sia per una vacanza fatta in Tanzania dove avevo visitato alcuni progetti di sviluppo implementati da delle ONG italiane. Ho studiato Etnologia a Parigi con indirizzo studi africani ma all’inizio non pensavo tanto al sociale quanto piuttosto alla voglia di conoscere altre realtà.

Per quali organizzazioni umanitarie ha lavorato in questi anni?
Ho iniziato nel 2004 con il CEFA di Bologna dove ero responsabile di un progetto di sviluppo integrato in un villaggio molto isolato della Tanzania. Il progetto comprendeva sia parti tecniche che sociali e spaziavano dalla costruzione di un acquedotto all'elettrificazione del villaggio, una parte era dedicata all'agricoltura, un'altra ad attività generatrici di reddito e di supporto alla scuola primaria e agli asili del villaggio. Ero l’unica espatriata e questo mi ha dato l’occasione di integrarmi molto bene nella vita del villaggio. Ho un bellissimo ricordo di quel periodo.
Poi, sempre in Tanzania, ho lavorato per Medici con l’Africa- Cuamm, di Padova. Successivamente sono andata prima in Camerun, all’estremo nord, e poi in Ciad per la Fodazione ACRA ora ACRA-CCS. Ho collaborato inoltre con una onlus di Bologna chiamata Nyumba Ali che si occupa di dare sostegno a bambini disabili e attualmente sto lavorando per la Fondazione AVSI di Milano e Movimento Lotta contro la Fame nel Mondo (MLFM) in un progetto idrico per portare acqua potabile alla popolazione rurale di Iringa in Tanzania.

Di cosa si occupa?
Mi occupo della componente sociale in un progetto di riabilitazione di un acquedotto rurale che serve ben 25 villaggi. Un progetto molto complicato, penso il più difficile che mi sia capitato in questi anni. L’acquedotto è vecchio di 40 anni e la gestione che c’è stata fino ad ora è stata anarchica e, se mi passa il termine, di tipo “mafioso”. Quindi intervenire e cercare di portare un equilibrio nella distribuzione e una trasparenza nella gestione non è stato semplice. Non sempre i risultati sono al 100%... Io e il mio collega però abbiamo dato il massimo e in questo ultimo periodo le autorità locali, prima completamente assenti, stanno prendendo in carico il progetto, il che ci fa sperare in un cambiamento e in una migliore gestione dell’impianto che prevede anche una stazione di trattamento delle acque.

Tra il 2010 e il 2011 in Camerun si è occupata di un progetto per l'integrazione dei disabili, un tema particolarmente difficile da affrontare anche in un paese sviluppato come il nostro. Come è andata?
Direi che è andata bene. Il partner locale, la Fondation Bethleem de Mouda, era molto forte e capace ed è riuscito a portare avanti gran parte delle attività del progetto anche se ora con la presenza di Boko Haram, un'organizzazione terroristica jihadista, le attività nei villaggi hanno rallentato. La mia collega era inoltre molto competente in materia e con una grande conoscenza del luogo, e questo ha influito sulla buona riuscita del progetto. Va detto infatti che spesso il successo di un intervento dipende dall’integrità delle persone che lo implementano, dalle relazioni di fiducia e stima che si riescono a tessere con le autorità locali e le popolazioni beneficiarie, e non tanto dal fatto che una Ong o una agenzia sia più strutturata di altre o abbia più fondi.